Articolo di Andrea Merusi
“Terramacchina” è il film che nel settembre 2011 ha registrato il tutto esaurito al cinema D’Azeglio di Parma.
Il tema principale del documentario è la sostenibilità ambientale della filiera agro-alimentare, tema molto caro per la città di Parma, da tanti considerata “capitale della food valley”.
Agricoltura ma non solo, nel film vengono toccate anche altre tematiche: consumo di suolo agricolo, inquinamento delle acque e dell’aria, malnutrizione e spreco di cibo.
Per capire meglio cos’è “Terramacchina” abbiamo intervistato il regista Daniele di Domenico, documentarista e fondatore dello studio di comunicazione ambientale “Kairòs”.
La prima domanda sorge spontanea: “Cosa significa Terramacchina”?
Il titolo ci è venuto in mente leggendo una pubblicazione del 1898, scritta dall’agronomo Antonio Bizzozero, fondatore a Parma del “Consorzio Agrario Cooperativo”, oggi uno dei più importanti d’Italia. Nel documento l’autore scriveva: “oggi l’agricoltore deve essere un vero industriale; egli deve considerare la terra come una macchina, destinata a trasformare la materia prima acquistata, ossia i concimi, nei vari prodotti che vengono richiesti dal mercato”.
E’ una visione dell’agricoltura innovativa per gli inizi del 1900 ma molto meccanicistica. Con il documentario volevamo approfondire l’argomento, valutare gli effetti di questa visione e verificare se è ancora attuale.
A che risultato siete arrivati? Questa visione è ancora attuale?
Secondo me no. Non si può più portare avanti perché molti studi dimostrano che i risultati di questo sfruttamento intensivo del territorio sono molto preoccupanti. Come viene illustrato nel documentario, le pratiche di agricoltura intensiva hanno compromesso ed inquinato molte risorse naturali come l’acqua e la terra. I danni provocati non sono ancora irreversibili ma ci stiamo avvicinando ad una “soglia di rischio” che mette a repentaglio la salute delle persone e dell’ambiente, ma anche lo stesso settore produttivo.
Queste tematiche sono spesso trattate in riviste specializzate e libri, com’è nata l’idea di farci un film?
L’idea è venuta al CIREA dell’Università di Parma (Centro Italiano di Ricerca ed Educazione Ambientale) che è stato il promotore del progetto. Si è poi creata una rete di partner con i centri di educazione ambientale della provincia di Parma, il laboratorio LEDA di Legambiente, i diversi parchi del territorio (Parco dei Cento Laghi, Parco del Taro, Parco dei Boschi di Carega, Parco dello Stirone) e il CIDIEP. Abbiamo scelto la forma del documentario perché volevano realizzare uno strumento di comunicazione immediato e facilmente accessibile al pubblico.
La prima ha registrato il tutto esaurito, questo significa che nella gente le tematiche ambientali sono molto sentite oppure che hai tanti amici?
Entrambe le cose: abbiamo svolto un intenso lavoro di promozione a cui, però, si sono aggiunti i “frutti” del lavoro di sensibilizzazione verso le tematiche ambientali svolto dalle tante associazioni ambientaliste presenti a Parma. Devo anche dire che nelle successive proiezioni fatte nelle scuole e nelle università, ho riscontrato un grande interesse verso queste tematiche che non mi aspettavo.
Da molti Parma è considerata la capitale della food valley, basti pensare a tutte le produzioni agro-alimentari che caratterizzano questo territorio. Secondo te questa definizione è davvero azzeccata? C’è il rischio che col tempo la città possa perdere questo riconoscimento?
La definizione “food valley” non mi piace molto perché sembra una mera trovata di marketing. Si vuole dare un’immagine di un posto incantato caratterizzato dal binomio “cultura e cibo”. Secondo me questa comunicazione è falsata. Le scelte fatte dal sistema produttivo e dalle amministrazioni non sono andate verso una tutela di questo patrimonio che è reale ma che adesso si rischia di perdere. Sicuramente Parma merita questo blasone riguardo al cibo ma non merita una medaglia per come ha cercato di tutelare il suo territorio. C’è veramente il rischio di compromettersi la reputazione.
Agricoltura e ambiente, qual è il rapporto tra questi due settori? Contrasto o collaborazione?
Fino a 50 anni fa l’agricoltura è sempre stata eco-sostenibile perché i vecchi agricoltori conoscevano i limiti del proprio territorio e delle risorse naturali, e non c’erano casi di sovrasfruttamento delle risorse perché era necessario garantire la produttività del terreno anche nel futuro. Negli anni si è passati da un sistema agricolo orientato alla sussistenza ad un sistema sempre più industriale. Ora l’agricoltura si trova schiacciata da un sistema economico che, cercando di fare profitto, si rivale sul settore primario a scapito dell’ambiente. Sono anche cambiati gli assetti sociali, prima le aziende agricole erano portate avanti a livello famigliare, ora a gestirle sono sempre più grandi produttori e grandi aziende che hanno una visione del territorio molto diversa.
E’ davvero possibile un’agricoltura eco-sostenibile?
E’ ancora possibile un equilibrio tra ambiente e agricoltura però c’è bisogno di rinnovamento. Ci vorrebbero dei nuovi innovatori come Antonio Bizzozero, che però individuino e diffondano delle tecnologie meno impattanti sull’ambiente. Alcune tecnologie sono già esistenti, ad esempio i sistemi di irrigazione a risparmio idrico che si vedono nel documentario. E’ necessario però diffonderle con un azione di sistema come Bizzozero era riuscito a fare nel giro di 20-30 anni. Egli aveva creato una rete che vedeva al suo interno diversi attori: le banche, il consorzio agrario, gli industriali. Anche adesso bisognerebbe riproporre una collaborazione di enti operanti sotto il controllo degli amministratori del territorio.
Come vedi il territorio della provincia di Parma fra vent’anni? Considerando il trend demografico, gli stili di vita delle persone?
Quando si fanno delle proiezioni ci sono sempre diversi scenari possibili, c’è uno scenario chiamato “business as usual”, quello in cui le modalità di gestione e produzione rimangono invariate rispetto al presente. In quest’ottica vedo un degrado delle risorse naturali tale da non permette più di intervenire. Vedo le risorse talmente compromesse da non essere più utilizzabili.
C’è però lo scenario più ottimista, quello in cui si mettono in campo politiche di gestione del territorio che vanno verso direzioni più sostenibili. Secondo me si può ancora cambiare strada ma devono volerlo la popolazione, il mondo produttivo, ma soprattutto deve volerlo la politica. Ci vogliono amministratori che sappiano fare scelte coraggiose e che non usino la crisi economica come un alibi per non fare niente. Ci vuole una classe politica che abbia una visione a lungo termine dei problemi ed esca dall’ottica del mandato.
Quali saranno gli sviluppi futuri di Terramacchina?
Stiamo lavorando alla distribuzione cercando di dare la massima diffusione possibile. Stiamo organizzando un calendario di proiezioni nelle principali città dell’Emilia Romagna e della Lombardia. Il tutto con l’aiuto di associazioni, scuole ed università. Chi fosse interessato ad organizzare una proiezione può contattare lo staff attraverso il sito www.dsa.unipr.it/terramacchina .
Inoltre, parteciperemo anche a diversi festival. Lo scopo del documentario e del nostro lavoro è quello di raggiungere il maggior numero di persone e soprattutto le aziende del settore per portare avanti delle azioni congiunte. L’intenzione non è quella di fare il processo a qualcuno ma quella di fare emergere dei problemi in modo da aprire un dibattito e dare vita a delle azioni concrete. Vogliamo dare il nostro contributo alla creazione di quel sistema di cui ti parlavo prima.